A colloquio con Giuseppe Morbidelli
01/12/2021
Giuseppe Morbidelli, professore emerito di diritto amministrativo nell’Università “Sapienza” di Roma e grande avvocato, è un uomo di cultura e saggezza.
Mercoledì 1 dicembre 2021 sono stato a colloquio con lui ed è sempre un grande piacere ascoltarlo e fare tesoro dei suoi consigli.
Ricordo anche alcune sue parole nel libro biografico Banchieri di Beppe Grisolfi nelle quali mi ritrovo anche io.
“Ho avuto la fortuna di insegnanti validissimi già a partire dalla scuola elementare, di cui ricordo sempre con grande ammirazione e riconoscenza il mio “maestro”, che mi fa piacere menzionare, Luigi Cantaloni, il quale ci educava non solo in italiano, storia, geografia ed aritmetica, ma anche alla solidarietà, all’impegno, alle belle arti e alla musica, alla storia cittadina, alla pratica sportiva; e così alle medie e soprattutto al liceo classico la cui serietà e il cui rigore sono dimostrati dal fatto che in seconda liceo rimanemmo in 7! [..]
Quarto, ed ultimo principio, che vedo con piacere evocato da Giovanni Bazoli nella sua recentissima (giugno 2017) lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna, è quello della massima attenzione ai rapporti umani e con essa della capacità di comprendere le persone e le loro motivazioni, principio del resto universale che vale sempre ed in qualunque attività, e che mi riporta agli insegnamenti ricevuti nella adolescenza.” Gianpaolo Lastrucci
Di seguito un estratto della biografia:
Tratto da “ Banchieri “ di Beppe Ghisolfi – ARAGNO Editore
Ho avuto la fortuna di insegnanti validissimi già a partire dalla scuola elementare, di cui ricordo sempre con grande ammirazione e riconoscenza il mio “maestro”, che mi fa piacere menzionare, Luigi Cantaloni, il quale ci educava non solo in italiano, storia, geografia ed aritmetica, ma anche alla solidarietà, all’impegno, alle belle arti e alla musica, alla storia cittadina, alla pratica sportiva; e così alle medie e soprattutto al liceo classico la cui serietà e il cui rigore sono dimostrati dal fatto che in seconda liceo rimanemmo in 7! Altrettanto devo alla mia famiglia: avevo gli esempi tanto del nonno paterno, emigrato poco più che ragazzo in Argentina ove riuscì a diventare proprietario di una catena alberghiera (anche se poi una svalutazione gli falcidiò grandemente il patrimonio appena liquidato!) quanto del nonno materno, che da semplice muratore divenne imprenditore edile di media grandezza, nonché e soprattutto di mio padre, che da giovane ufficiale aveva combattuto ad El Alamein, ricevendo decorazioni al valor militare. Sicché – come diceva sempre il “babbo” – lo studiare è ben più agevole. Mi ha anche forgiato e fortificato l’avere vissuto in più città (Arezzo, Viterbo, Trieste, Lucca, Firenze) e dunque ogni volta dovevo abbandonare amicizie, luoghi del cuore, contatti, modi di vivere per ritrovarmi ogni volta con nuovi e sconosciuti compagni di scuola. Il fatto poi che allora gli adolescenti si incontrassero e si conoscessero per la strada, senza alcuna barriera o confinazione, face- va allacciare rapporti che potevano essere anche conflit- tuali, ma nello stesso tempo genuini. A maggior ragione ciò avveniva nelle estati che negli anni ’50 e ’60 passavo per lo più in Valdambra, terra di origine dei miei, situata tra il Valdarno, il Chianti, le crete senesi e la Valdichiana. Per avere un’idea, si trattava di un mondo non molto diverso da quello descritto da Piero Calamandrei nel suo “Inventario della casa di campagna”: dove convivevano lavoro faticosissimo e solidarietà, gentilezza d’animo e orgoglio, saggezza e capacità manuali, conoscenza e rispetto della natura, devozione verso gli anziani e ossequio delle tradizioni, un mondo che – per dirla sempre con Calamandrei, costituisce nella camera oscura del cuore una sorta di lastra impressionabile tanto che tutte le volte che rivedo borghi, chiese, sentieri, boschi, argini, rivi e campi di quei luoghi, con essi sento rivivere la fresca curiosità e i tanti perché che rivolgevo di continuo a chi frequentavo e incontravo e delle cui risposte continuo ad abbeverarmi. Ho ritenuto di menzionare momenti e sensazioni della mia vita giovanile solo per far presente come i rapporti e le interlocuzioni con gli altri siano fondamentali: sia per apprendere, sia per comprendere, sia per decidere e di ciò mi sono sempre avvalso, a partire dalla prima esperienza in cui in un certo senso mi sono trovato ad impartire disposizioni (ovvero da ufficiale di complemento), ma soprattutto nella “governance” bancaria. Fatto è che con le istituzioni bancarie ho avuto sempre a che fare, in quanto figlio di un dirigente di Bankitalia, tanto che ho respirato sin dalla adolescenza il vero e proprio mito di Governatori quali Einaudi, Menichella e Carli, ma anche l’idea di una attività bancaria di necessità regolata e ordinata quando non minuziosa, poiché da un lato volta a tutelare e gestire il risparmio delle famiglie, e dall’altro, attraverso tale risparmio, a finanziare investimenti e promuovere iniziative economiche che a loro volta generano reddito e di rimando ancora risparmio. A proposito della minuziosità, tra i miei ricordi infantili uno ricorrente è quello di mio padre che non di rado tornava a casa a notte fonda perché dai conti di fine giornata vi era uno sbilancio anche di poche decine di lire, una volta addirittura (dirigeva la Tesoreria provinciale della filiale di Arezzo) inforcò la Moto Guzzi 500 per raggiungere un parroco dell’Alto Casentino cui era stata versata per errore una “congrua” più alta del dovuto, onde ottenerne subito la restituzione e regolarizzare così prima della chiusura serale il libro giornale. È chiaro che si trattava di tempi, di relazioni, di procedure, di controlli, di modi di far banca, neppure lontanamente comparabili con quelli di oggi e anzi neppure pensabili. Però l’idea e con essa l’esigenza del massimo ordine e della massima precisione sono divenute per me una sorta di weltanschauung. Sempre per continuare con il flashback, una sorta di contatto inconscio con il sistema bancario o meglio con il futuro del sistema bancario lo associo anche al fatto che negli anni del liceo ebbi modo di conoscere, tramite l’amicizia che avevo con il fratello della sua futura moglie, l’allora giovane assistente all’Università di Pisa Giuliano Amato, la cui fama di studente prodigio, non solo per il saper di greco e di latino, ma per vastità di cultura, facilità di eloquio, prontezza e raffinatezza di battuta, memoria da Pico della Mirandola, si tramandava di anno in anno nell’ambiente del Liceo Classico Niccolò Machiavelli di Lucca: e – come ho avuto modo di far presente più volte allo stesso Amato – suscitando in tutti noi non poca invidia (e altro ancora) perché veniva sempre menzionato dai professori come esempio inimitabile. Come è evidente non avrei mai pensato che proprio Amato avrebbe dato il suo nome alla legge che disboscò la cosiddetta foresta pietrificata, e contribuì (se pur non del tutto) a separare le banche dalla politica. Per il vero la tradizione di famiglia mi aveva anche influenzato in ordine al “che fai da grande”, essendo appunto mio precipuo progetto quello di partecipare ai concorsi per l’accesso all’Istituto di emissione (quale era allora Bankitalia). Sennonché intrapresi la strada della carriera universitaria, grazie alle indicazioni di illustri Maestri quali Giovanni Miele, che insegnava diritto amministrativo, materia nella quale ebbi a laurearmi, con una tesi sugli enti pubblici (per cui già in quella sede mi imbattei negli istituti di credito di diritto pubblico), come Paolo Grossi, oggi Presidente della Corte Costituzionale che ricordo giovane quanto brillantissimo e suadente professore di storia del diritto italiano e soprattutto Alberto Predieri, dei cui insegnamenti e della cui guida sarò sempre gratissimo debitore. E fu una scelta proficua sia per l’acquisizione del metodo di affronta- re i problemi, sia per i rapporti con colleghi oltremodo qualificati da cui tanto ho appreso (tra di essi molti che hanno condiviso l’esperienza di banchiere: da Merusi a Grottanelli de Santi, da Roversi Monaco a Sacchi Morsiani, da Cassese a Libonati, dallo stesso Predieri a Irti), sia per la possibilità di seguire corsi nelle Università di Heidelberg e di Strasburgo, che hanno contribuito in maniera decisiva alla mia formazione. La scelta risultò anche fortunata perché a soli 30 anni venni inserito accanto a colleghi di grandissimo valore quali Augusto Barbera e Gustavo Zagrebelsky tra i vincitori del concorso a professore ordinario di diritto costituzionale. Per la verità anche i miei studi costituzionalistici sono stati in qualche maniera influenzati dalla Banca d’Italia, nel senso che ho sempre avuto una particolare predilezione verso le tematiche della regolazione dell’economia, il che mi ha condotto ad avvicinarmi ad istituti più propri (secondo vecchi schemi di distinzione tra discipline) del diritto amministrativo, materia che appunto avevo coltivato in sede di tesi di laurea e che poi ho insegnato negli ultimi dieci anni della mia attività di docenza presso la Facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma, quando a seguito della nomina di Sabino Cassese a giudice della Corte Costituzionale, sono passato dalla cattedra di diritto costituzionale a quella di diritto amministrativo. Sicché ho rivolto molte delle mie ricerche e dei miei studi alla disciplina pubblica dell’economia sia a livello di teoria generale (in primis norme costituzionali sull’iniziativa economica privata, sul diritto di proprietà, sulla tutela del risparmio) sia a livello di specifici istituti o normative (quelli fino al 2001 sono stati raccolti in un volume edito da Giappichelli intitolato Scritti di diritto pubblico dell’economia). Tra l’altro dopo gli anni di “assistentato” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, una volta diventato ordinario fui chiamato ad insegnare prima presso la Facoltà di Economia di Cagliari, dove per ovvie ragioni tenni corsi in cui erano prioritari i profili economici delle norme costituzionali poi nella Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, ove non mancarono momenti di contatto anche attraverso seminari interdisciplinari, con colleghi economisti di grande valore: basti ricordare Veniero Del Punta, Fausto Vicarelli, Ezio Tarantelli e soprattutto Mario Draghi, con cui le interlocuzioni furono continue, anche per la comunanza generazionale, e accanto al quale cominciai a comprendere che il corso degli eventi non lo si misura solo attraverso le leggi, né queste sono sufficienti per cambiarlo. Nel contesto di tali studi ebbi così ad imbattermi sulle neonate fondazioni bancarie (allora definite enti conferenti) il cui regime fu da subito fonte di grandi incertezze interpretative, imponendo di confrontarsi con un tema classico del diritto amministrativo quale quello della distinzione tra enti pubblici e privati, che si risolse solo nel 2003 con la notissima sentenza n. 300 della Corte Costituzionale, emessa a seguito di un contenzioso in cui io stesso ebbi a patrocinare sia l’ACRI sia talune fondazioni bancarie, e che enunciò il principio per cui quest’ultime sono soggetti privati dell’organizzazione delle “libertà sociali”. Devo dire però che l’ingresso nel mondo bancario, avvenuto nel 1994 attraverso la cooptazione nel Consiglio di Amministrazione (e nel Comitato Esecutivo) di Cassa di Risparmio di Firenze fu per me inaspettato: non ero Socio della Cassa, non avevo alcuna esperienza nel settore della finanza, non avevo alcuna appartenenza politica, non ero iscritto ad alcuna associazione (se non al Circolo Tennis di Firenze). Però ero allievo di Alberto Predieri, ero anzi suo successore alla cattedra di diritto costituzionale dell’Università di Firenze, sicché fu ritenuto logico che gli succedessi anche all’interno del Consiglio della banca (di cui fino allora era stato Vice Presidente). Vero è che non avevo una formazione economica, ma valgono sul punto le considerazioni di Carlo Azeglio Ciampi che è divenuto Governatore della Banca d’Italia pur essendo laureato in lettere classiche e in giurisprudenza, e quando gli fu chiesto come aveva fatto, rispose che ciò che conta è la capacità di ragionare sulle cose accuratamente e la capacità di “critica delle fonti”. Il che peraltro – come insegnava Weber, se pur con riferimento ai requisiti della vocazione politica (ma anche le decisioni dei banchieri devono rispondere ad interessi generali, sicché la citazione non sembra fuor di luogo) – deve essere sempre accompagnato dalla dedizione e dal senso di responsabilità. L’esperienza nel Consiglio di Cassa di Risparmio di Firenze (poi Banca CR Firenze) è stata totalizzante (quando non travolgente). In primo luogo perché all’epoca a cagione di tutta una serie di circostanze la banca versava in serie difficoltà: basti dire che era stata appena avviata dai precedenti Amministratori un’azione di responsabilità verso il Direttore Generale, che era in corso una indagine penale verso il Presidente (poi invero conclusasi con l’assoluzione) nonché verso il Presidente del Collegio Sindacale e numerosi dirigenti (taluni dei quali sottoposti a misure cautelari), le sofferenze avevano rag- giunto una soglia elevata, talché la stessa reputazione, valore primo nelle banche, era offuscata. Il tutto e altro ancora messo a fuoco da una dura ispezione di Bankitalia. In secondo luogo il Consiglio, pressoché completamente rinnovato, si trovò di fronte ad una serie concomitante di novità (in primis T.U. bancario e legge Amato) che avevano del tutto modificato il modello tradizionale di fare banca: dopo lo scorporo dell’ente conferente, la banca non è più un ente pubblico, ma una società di capitali, tanto che l’interesse pubblico non può fare aggio come in passato sull’interesse imprenditoriale, è venuto meno il contingentamento degli sportelli, di qui la concorrenza molto più estesa, la banca è universale, e dunque può operare anche a medio e lungo termine e perde significato anche la distinzione tra banca commerciale e banca di investimento. Nel frattempo sopraggiungeva ed incombeva una regolamentazione sempre più stringente: MIFID, antiriciclaggio, L. 231/2001, nuovi principi contabili (i famosi IAS), antiusura, istruzioni sempre più dettagliate di Bankitalia. A ciò si aggiungeva la vera e propria esplosione dell’informatica, per di più soggetta a continui adattamenti e modifiche (e connesse necessità di ingentissime risorse), la quale determinava la progressiva ed inarrestabile diminuzione delle attività tradizionali svolte presso gli sportelli fisici, in favore di servizi operati attraverso la multicanalità, con l’ausilio di strumenti tecnologici sempre più sofisticati: e se questo da un lato andava a modificare le esigenze dei clienti, dall’altro incideva anche sulla professionalità dei dipendenti sia per la necessità di muoversi nei sistemi informatici sia per lo sviluppo dell’attività commerciale a tutti i livelli. La banca universale poi portava ad operare in settori del tutto nuovi per le Casse di Risparmio, aduse per lo più alla tradizionale intermediazione creditizia, addentrandosi così in attività legate al mercato mobiliare, come l’asset management, il corporate banking, l’investment banking. Di qui la esigenza di una profonda razionalizzazione dei processi produttivi, di un rinnovamento delle strutture, di un ricambio dei dirigenti, di una rimodulazione delle mansioni e di forti e continue iniziative di formazione del personale. Insomma uno sforzo intensissimo di rinnovamento e razionalizzazione, tra l’altro funzionale alla quotazione di Cassa di Risparmio di Firenze in Borsa, ove (nel 2000) venne collocato il 25% del capitale. Ma non solo. Difatti nel frattempo si muoveva (e non poco) il cosiddetto risiko bancario, che vide la CR Firenze tra i “cosiddetti predatori”, pervenendo ad acquisire il controllo di numerose Casse di Risparmio (Pistoia, Civitavecchia, Orvieto, Mirandola, La Spezia), cui si aggiungeva il controllo di numerose società prodotto (Centro Leasing, Centro Factoring, Centro Vita), il controllo congiunto con BNP Paribas di Findomestic, nonché rilevanti partecipazioni in varie società finanziarie. La legge Ciampi peraltro imponeva alle fondazioni di cedere la maggioranza della banca conferente, il che avvenne appunto con la cessione di circa il 25% del capitale a San Paolo Imi e a BNP Paribas (in realtà queste ultime già complessivamente ne detenevano il 7% circa), e indi la quotazione. Pochi anni dopo (nel 2007), sia in ragione del mercato che imponeva sempre più razionalizzazioni ed economie di scala, sia in ragione dell’estrema convenienza della proposta di acquisto fatta da Intesa Sanpaolo (le azioni erano state collocate al prezzo di € 1,13 e vennero valutate nel concambio con azioni di Intesa Sanpaolo al prezzo di € 6,73!) la Fondazione cedette la quota di maggioranza relativa (31,6% circa), cui seguì il delisting. All’epoca non ero Presidente, ma la mia presenza di lunga data nel Consiglio e nel Comitato, e soprattutto il fatto di essere un giurista ebbe a coinvolgermi specificatamente nello studio di tanti dossier e delle connesse problematiche giuridiche, nonché nella continua interlocuzione con Amministratori e dirigenti della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, come pure con Amministratori delle Fondazioni conferenti delle banche acquisite, e Amministratori e dirigenti di tali banche, altri soci di Banca CR di Firenze, autorità di vigilanza, istituzioni pubbliche. Il mio compito era quello di fiancheggiare (e talvolta di fronteggiare) Aureliano Benedetti, Presidente dal 1994, che invero ha operato con energia ed estrema competenza alla rimessa in linea di navigazione della banca e poi al suo rilancio, alla quotazione, alle varie acquisizioni e connesse rimodulazioni organizzative, il che ha consentito la dismissione del capitale della banca da parte della Fondazione attraverso una operazione rivelatasi oltremodo avveduta (come ora hanno compreso anche i tanti seguaci del senno di poi): difatti Aureliano – come lui stesso ha riconosciuto – ogni tanto necessitava di “canali diplomatici” o comunque di freni vestiti da regulae iuris cui potevo ricorrere senza remore anche grazie ad una antica amicizia per di più consolidata da una amicizia fin dai banchi di scuola dei nostri figli. Non si può pertanto dire che, una volta divenuto Presidente nell’aprile del 2012, non avessi maturato un congruo periodo di formazione, tanto più che nel frattempo, avevo fatto parte del Consiglio di Amministrazione di IMI, di ICCRI, di Casse Toscane (holding che deteneva la maggioranza del capitale azionario di quasi tutte le Casse di Risparmio della Toscana, poi sciolta per conflitti di campanile ovverosia per l’impossibilità di rimuovere i vari status quo locali), di Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, oltre che di altre società non finanziarie quali ACF Fiorentina, Salvatore Ferragamo, G.I.M. (all’epoca holding del Gruppo “Orlando”). Però l’impatto è stato egualmente traumatico: già stabilire l’ordine del giorno è un problema, dovendo di continuo adeguare le strutture alla incessante evoluzione normativa, che, sotto la spinta delle varie (troppe?) istituzioni europee nonché del Financial Stability Board impongono una congerie di controlli e di metodologie di valutazione dei rischi. Per dare un’idea del peso della regolamentazione bancaria basti dire che, tra quadro normativo e fiscale sia nazionale che internazionale, e regole provenienti dalle Autorità Indipendenti (europee e nostrane) negli ultimi cinque anni le banche italiane hanno dovuto adeguarsi a più di 500 provvedimenti normativi (circa 2 a settimana), tanto che il Consiglio di Amministrazione è letteralmente sommerso dai temi della regolazione da osservare e concretizzare. Nello stesso tempo la crisi economica insorta nel 2008 raggiungeva il suo apice, e oltre agli effetti diretti dati dalla riduzione di investimenti, dalle tante situazioni di dissesto e connessi riflessi sull’occupazione e di rimando sui consumi, dalla moltiplicazione di non performing loans, ha reso necessaria una riclassificazione e revisione di tutti i crediti e connesse garanzie ed ha altresì obbligato a far fronte alla difficoltà di numerose banche con continui esborsi attraverso la partecipazione a fondi di garanzia e depositi etc. Del resto la crisi economica è stata appunto la ragione di una regolamentazione sempre più complessa e pervasiva. Non si tratta solo di rispettare i rapporti di capitale e gli indici di solidità patrimoniale, ma anche una serie di molteplici altri profili che vanno dalla tutela del cliente-risparmiatore e del cliente consumatore, ai sistemi di controllo del rischio (rischi di mercato, di Paese, di liquidità, di operatività, di cambio, di legislazione, etc.), nonché ai sistemi di governance e supervisione, ai meccanismi di incentivazione e remunerazione del personale e alla definizione dei rapporti con le autorità e con la clientela. Quando sono divenuto Presidente di Banca CR Firenze erano ormai in fase avanzata le procedure volte alla “centralizzazione” presso la Capogruppo dei servizi e delle varie attività, dal leasing al factoring, dal private banking all’asset management, dal settore assicurativo al credito al consumo, dai crediti per i grandi gruppi alle relazioni sindacali. Di fronte alle preoccupazioni del mondo imprenditoriale, delle istituzioni, del personale, ho sempre cercato di far presente che questo non significa affatto una diminutio della banca, e tantomeno un danno per l’economia toscana. Difatti da un lato la banca ha conservato la sua presenza ramificata sia nelle città che nei piccoli centri, come pure ha mantenuto il suo costume tradizionale di rapporto diretto e colloquiale con i clienti, molti dei quali non sono ancora adusi all’internet banking (né tantomeno alle regole di Basilea, tanto che mi è capitato due o tre volte di ricevere lamentele verso il severissimo Sig. “Basilea” da parte di clienti cui era stato riferito che la loro domanda di finanziamento non era possibile perché lo vietava Basilea!), dall’altro il suo inserimento in un grande gruppo ha consentito di prestare servizi di ogni tipo, anche a livello internazionale, disponendo sempre della massima liquidità, della capacità di fornire consulenze a 360 gradi per le imprese, per collocazione mini-bond, per la quotazione, per innovazione, per riequilibrio della struttura finanziaria, per ristrutturazioni, problematiche fiscali e successioni e servizi di Mergers and Acquisitions ecc. In fondo l’inserimento di Banca CR Firenze nel gruppo Intesa Sanpaolo ha fatto cadere in radice i termini del dibattito che contrappose Donato Menichella a Raffaele Mattioli: come noto il Governatore non favorì l’apertura di nuovi sportelli Comit perché così non sarebbero state valorizzate le realtà imprenditoriali locali, per il che – a suo avviso – meglio si confacevano banche sicuramente meno “nobili”, ma ben più radicate sul territorio e quindi dotate di maggiore conoscenza dell’ambiente e delle persone, mentre le grandi banche tendono a rendere più impersonali i rapporti di credito. Tuttavia solo quest’ultime sono in grado di incentivare e sorreggere i processi di investimento e di internazionalizzazione delle imprese; e nello stesso tempo i criteri di governance sono tali da immunizzare la banca da eccessi di localismo o come si usa dire di “capitalismo relazionale”. Sicché il connubio tra la tradizione e il radicamento nel territorio di Banca CR Firenze e le dimensioni, le capacità, le risorse e le potenzialità di Intesa Sanpaolo costituiscono la quadratura del cerchio. Nella mia attività di Presidente non operativo ho seguito la regola – si parva – dei sovrani inglesi: limitarsi ad ammonire, incoraggiare, consigliare. Ma questo sempre sulla scorta di taluni principi, che – come scriveva V. E. Orlando – sono e devono essere sempre un punto di ri- ferimento essenziale nell’agire. E i principi sommi che ho seguito oltre al metodo “Ciampi” dianzi richiamato, sono quattro. Primo, rifuggire dai criteri algidi espressi in regole universali generali ed astratte, che pretendono di far credito applicando modelli precostituiti come fossero teoremi di Pitagora, quando invece le imprese sono oltremodo differenziate, per prodotto, governance, tradizione, collocazione geografica e di mercato e altro ancora. Il compito delle banche è quello di conoscere in profondità, al fine di valutare la specificità del caso concreto: in altri termini va bene la ragion pura, ma ad essa deve sempre seguire la ragion pratica. Secondo: avere sempre a mente la funzione “sociale” delle banche, perché costituiscono una vera e propria infrastruttura essenziale, tanto più in un sistema bancocentrico come il nostro, così che lo stesso sviluppo economico del Paese è legato a filo doppio con la capacità delle banche di valutare il merito creditizio che non significa pertanto dire un sì o un no, ma valutare le opportunità, i rischi, le variabili, e dunque in tal maniera agevolare e sorreggere le aziende e con esse il sistema Paese. Terzo, l’industria bancaria non dispone di segreti di fabbricazione o di brevetti o di prodotti da vendere in serie. La banca è una società di servizi, dove il capitale umano è decisivo, di talché è fondamentale la cultura e la professionalità dei dipendenti. Spesso non si ha la cognizione di come il mestiere di far banca a tutti i livelli sia sempre più difficile. Non solo esaminare progetti di ogni genere e attività (dall’agricoltura alla pesca dall’estrazione mineraria al tessile, dalla meccanica al farmaceutico, dal commercio ai servizi turistici, etc.), fare previsioni macroeconomiche e microeconomiche, districarsi tra norme sempre più stratificate e complesse emesse a getto continuo, talvolta contraddittorie, per di più sotto la pressione della continua evoluzione informa- tica, dell’emergere di nuovi prodotti, dell’urgenza del cliente. Si tratta di una attività che richiede dedizione, impegno, versatilità, estrema professionalità. Tutto il contrario della vulgata (anche letteraria: basti pensare a Pirandello, Svevo, Pontiggia, Chiara), che assimila il bancario ad un travet, formale e pedante, che svolge un lavoro quasi meccanico. Il principio che ne traggo è allora quello dell’esigenza di rappresentare urbi et orbi le difficoltà e insieme l’importanza del lavoro del bancario, il che del resto è funzionale alla motivazione e dunque al rendimento del personale. Per la verità di ben più scarsa considerazione godono i banchieri. Per quanto il tema sia soprattutto di competenza dei sociologi, ne individuo le ragioni nel fatto che rappresentano istituzioni considerate da sempre “antidemocratiche” o comunque elitarie, vicine ai potenti e con essi largheggianti nel far credito, e di contro non attente ai problemi dei deboli, nonché nel naturale conflitto tra chi è creditore e debitore e ancor più se aspirante debitore non esaudito. Il tutto poi rinfocolato ed anzi esaltato dalle recenti vicende di mala gestio che hanno interessato numerose banche, il che finisce per dar luogo ad un crucifige indiscriminato senza alcun distinguo. Il che non solo è infondato e del tutto ingiusto, ma anche dannoso ove si consideri che da questo volksgeist spesso germogliano norme (e indirizzi giurisprudenziali) penalizzanti le banche, e ciò finisce per essere pregiudizievole per la economia del Paese atteso il vaso comunicante che intercorre tra banche e sviluppo economico. Quarto, ed ultimo principio, che vedo con piacere evocato da Giovanni Bazoli nella sua recentissima (giugno 2017) lectio magistralis tenuta all’Università di Bologna, è quello della massima attenzione ai rapporti umani e con essa della capacità di comprendere le persone e le loro motivazioni, principio del resto universale che vale sempre ed in qualunque attività, e che mi riporta agli insegnamenti ricevuti nella adolescenza.